Benvenuti ad una nuova puntata di ModaPuntoCom. Ripartiamo alla grande, in questo settembre, perché ripartiamo con un progetto che verrà raccontato nei prossimi giorni dai microfoni di CubeRadio e anche dalla nostra rubrica ModaPuntoCom e si chiama “Armadio Etico”. Proprio per questo progetto legato alla moda etica e sostenibile è qui con noi, oggi, Matteo Ward di Wrad Living.
Ciao Francesca. Grazie dell’invito.
Grazie a te per essere qui con noi oggi e per essere qui a raccontarci una bellissima storia che è quella della tua startup. Lascio la parola a te perché vogliamo sapere tutto. Come nasce? Perché il nome? Come si sviluppa fino ad oggi?
Nasce WRAD come risposta ad una domanda che mi sono posto quando lavoravo nel mondo della moda. Ho fatto 8 anni nel settore, lavorando per due grosse aziende, specialmente una che mi ha portato in giro per il mondo. In quel ruolo specifico, con quell’azienda mi occupavo di seguire determinati progetti dedicati alla responsabilità sociale e d’impresa, ho scoperto una realtà che proprio non mi stava a genio, quella dell’impatto ambientale e sociale negativo che inconsapevolmente stavo contribuendo ad avere attraverso il mio lavoro. Inizialmente ho avuto una reazione personale, mi sono chiesto: ma che cosa sto facendo io? Mi sono reso conto che non ero da solo e che l’intero settore stava contribuendo a quella che oggi sappiamo essere la seconda, se non la terza, la quarta, la quinta industria tra le più inquinanti al mondo.
Ho fatto due anni all’interno dell’azienda per scoprirne di più, capire cosa potessi fare io, personalmente, all’interno del gruppo, per cambiare un po’ i paradigmi finché sono arrivato alla decisione, avevo circa 28 anni, di licenziarmi e di darmi la possibilità di fare qualcosa di diverso, di attivare una rivoluzione, come volevamo fare. Abbiamo portato avanti con molta motivazione e determinazione, il tutto grazie all’aiuto di tantissime persone che si sono unite a noi.
Nasce come progetto educativo, in primis, perché non avevo idea di cosa fare per attivare questa rivoluzione. Per cui partiamo dalle scuole, ritorno il mio liceo a Vicenza al seguito di un viaggio che avevamo fatto io e Victor, il primo socio co-fondatore dell’azienda, dove avevamo passato tre mesi semplicemente a studiare, a fare volontariato, lavorare con associazioni già attive a livello ambientale in tutta Europa. Con questi dati alla mano abbiamo costruito un piccolo progetto educativo, l’ho proposto alla mia professoressa di latino e greco al liceo classico Pigafetta di Vicenza che mi ha detto perché no, portatelo a scuola. Da quel “portatelo a scuola” è nato il primo seme di WRAD che è diventata un ente di formazione dedicato alla sostenibilità. Quest’anno marchiamo i 5 anni dalla nascita del progetto educativo e nascerà la School of WRAD, la prima accademia dedicata interamente all’educazione sulla sostenibilità.
Anticipi la seconda domanda. Quando avete mandato la vostra descrizione c’era, questo fattore molto imponente dell’educazione nella vostra filosofia. Proprio, quello che volevo chiederti. Esiste una scuola e una forma mentis che voi impartite agli studenti? Raccontaci un po’ di più.
L’educazione per noi ha sempre avuto un ruolo fondamentale dal primo giorno perché ci siamo resi conto che c’era una lacuna nel mercato e anche in noi stessi quando si affrontavano certi tipi di discorsi. Ce ne siamo resi conto anno dopo anno perché eravamo molto attivi nel campo della Ricerca e Sviluppo. WRAD è diventata una start up innovativa, subito dopo nasce come ente educativo, e da startup innovativa siamo diventati anche un brand per cercare di mettere sul mercato i risultati, frutto della nostra Ricerca e Sviluppo.
Abbiamo dovuto studiare assieme ai ragazzi, agli studenti e al nostro team quali fossero le metodologie migliori per: educare, sensibilizzare e creare generale interesse attorno al tema, studiando come trasformare l’informazione in comunicazione e come risolvere la complessità, perché se si parla di sostenibilità e moda il tema è veramente molto complesso. Abbiamo creato dei contenuti che fossero funzionali per reinventare i paradigmi del design della moda sostenibile perché, oggi, dal nostro punto di vista, uno degli errori metodologici più frequenti è quello del pensare semplicemente agli ingredienti: sostituiamo un materiale responsabile con un materiale non responsabile e manteniamo la stessa metodologia lineare che ha caratterizzato il settore da che è nato, in modalità industriale, intendo negli anni ‘60 in avanti.
Questo non è assolutamente corretto, non va bene, per cui in questi anni abbiamo studiato e impostato una nostra filosofia e metodologia di designer responsabile che non guarda solo il design del prodotto, ma guarda anche il design, il servizio della comunicazione e anche il design delle strutture manageriali e di governance aziendali.
Ti rivolgo una domanda legata a questa descrizione aziendale che ci hai mandato. Ad un certo punto dici che “c’era la necessità di risolvere un fondamentale problema di asimmetria informativa”, che è un po’ quello che stai anticipando. Secondo te, con la tua esperienza e anche la tua sensibilità: dove si crea nell’ambito del sistema moda, ma anche mi viene da dire, nell’ambito del sistema comunicativo, il problema di asimmetria informativa? Forse domanda un po’ scomoda perché ci sono dei vantaggi ad avere un pubblico dove queste informazioni non arrivano nel modo corretto?
Parte della domanda scomoda è quella che mi interessa di più. Hai ragione è scomoda, ma è quello che stiamo cercando di combattere perché l’industria della moda, oggi, fa leva sul fatto che il pubblico finale non abbia totale accesso e molta trasparenza a tutta una serie d’informazioni. C’è anche da dire che, spesso, queste informazioni riguardo l’impatto ambientale e sociale del prodotto, le case di moda non le hanno, non erano consapevoli. Avendo lavorato nell’industria vi assicuro che, fino a pochi anni fa, chiedere all’interno del gruppo con cui lavoravo: quanto consuma questa maglietta? Da dove viene? Come è stata fatta? Erano domande assolutamente trascendentali.
Proprio questo mi ha portato a spaventarmi, a chiedermi ma come è possibile che produciamo e che non si sappia perché vengono prodotti 100 miliardi di capi ogni anno? Sono pochissime le informazioni che abbiamo rispetto alle modalità di produzione: quanto consumano? Quale è l’impatto ambientale e sociale? Che cosa stiamo facendo? La tua domanda va scomposta in due. Da un lato c’è un fenomeno che si chiama Greenwashing che punta proprio sull’assimmetria informativa, punta in modo consapevole o meno, più subdolo o meno, sul deviare il consumatore per fargli credere determinate cose.
Greenwashing significa parlare di sostenibilità in modo fuorviante e deviante. Faccio un esempio, senza fare nomi, ma quando leggiamo campagne molto forti che invitano tutti noi a portare i vestiti nei negozi, che poi vengono riciclati e in cambio ci danno il bonus per fare dell’altro, questo è Greenwashing perché non esistono le tecnologie per riciclare i vestiti, nel 70% dei casi.
Generalmente i vestiti sono composti da materiali talmente diversi che poi non c’è la possibilità. È proprio quello il punto. Stavo leggendo dei dati, da prendere con le pinze, però, in modo tranquillo, posso dire che più della metà dei vestiti che indossiamo noi oggi, sia nel segmento femminile sia nel segmento maschile sono fatti di fibre composite. Questo è un problema perché non esistono i macchinari capaci di separare queste fibre e quindi allocare Il poliestere e la fibra sintetica ad uno smaltimento in una sezione e la fibra naturale ad un’altra. Purtroppo quella è la conseguenza di ciò. Producendo 100 miliardi di capi all’anno che vengono usati in media 7 volte e poi gettati nel cestino, abbiamo più della metà dei vestiti che rimangono nel sistema dai 40 ai 200 anni a seconda del tipo di fibra.
Questo succede anche nell’etico e sostenibile?
Purtroppo si.
Succede anche per le aziende che hanno un primo approccio nell’etico e sostenibile. Si focalizzano solo al prodotto finale senza pensare al sistema circolare che dovrebbe inserirsi. Il sistema circolare manca ed è questa la base del nostro sistema educativo: una visione sistemica. Si ragiona per compartimenti stagni e questo è un errore enorme nel mondo della sostenibilità perché se cerchi di fare un bene da una parte, poi, fai qualcosa di estremamente dannoso dall’altra.
L’esempio più classico, che faccio sempre, quello della bottiglietta riciclata. Tutti parlano delle magliette, dei vestiti fatti con il pet riciclato, cosa succede? Senza far nomi, ma ci sono tre brand molto attivi nel campo della sostenibilità che hanno lanciato una linea di magliette fatte con le bottiglie in plastica riciclata. Detta così sembra una cosa molto buona, anzi se la recuperiamo e la riutilizziamo, ci danno dei dati meravigliosi 180000 bottigliette dalle Alpi, dalle Dolomiti per quello puliamo l’ambiente. Qual’è il danno enorme che è stato fatto con questo processo?
Tu prendi un oggetto che di per sé è eternalmente riciclabile, la bottiglietta in PET, la trasformi con un processo particolarmente energivoro, anche perché il PET viene spedito dall’altra parte del mondo, in un filo, che viene mescolato ad un altro filato che è il cotone, per costruire delle magliette, e quindi mi blocchi il ciclo del riciclo, scusate il gioco cacofonico di parole, della bottiglietta. Mi vai a trasformare la bottiglietta in un oggetto che prima, sotto forma di bottiglietta era ciclabile, adesso non lo è più. L’utente finale crea un danno ancora maggiore perché mette la bottiglietta infetta la vende, la raccoglie e la mette sul contenitore della plastica, la maglietta non ti viene in mente, anzi non ci sono le strutture per farlo.
Nel progetto che stiamo sviluppando qui in IUSVE di Armadio Etico abbiamo avuto delle difficoltà a scindere la moda rispetto anche a tutto il resto, nell’ambito dell’etica e della sostenibilità. Quando inizi a considerare il prodotto, non solo come prodotto a sé stante, ma come il processo, l’idea e poi anche il riciclo, quindi l’impatto ambientale iniziano a valutarsi anche le persone coinvolte, tutte le materie coinvolte e anche i singoli enti che concorrono al processo di produzione.
È proprio vero quello che tu dici che è tutto collegato, non solo della moda, proprio in generale, dobbiamo renderci conto che la visione deve essere più aperta e dipendiamo molto di più non solo dal nostro corpo o dal nostro indumento ma da qualsiasi altro oggetto. Da un lato ci siamo disconnessi dalla grossa verità. Il fatto che le nostre magliette, quello che stiamo indossando, sono fatte esattamente con gli stessi ingredienti che servono per assolvere delle funzioni essenziali e vitali quali cibarsi, bere, respirare aria pulita, avere una terra sulla quale possiamo coltivare degli ortaggi e della frutta senza pericolo di contaminazione. Ci siamo dimenticati di questo, ci siamo disconnessi da questa verità e i danni, oggi, li stiamo pagando.
Dobbiamo intervenire immediatamente per: risolvere i danni che sono stati fatti; reinventare i paradigmi dei processi produttivi per evitare che vengono fatti in un futuro; riposizionare le nostre priorità nella vita. L’industria della moda, di cui faccio parte, produce oggetti non essenziali, con molta umiltà dico, ai ragazzi e agli studenti che vogliono fare Fashion Designer, ricordatevi, come me lo ricordo io tutti i giorni, nessuno ha bisogno di voi, di me e di nessuno che faccia abbigliamento perché siamo pieni. Per cui dovete trovare il modo di legittimare la costruzione di magliette, t-shirt e jeans di cui nessuno ha bisogno, considerato il fatto che usate invece delle risorse di cui tutti hanno bisogno per sopravvivere.
Quando si parla ai più o a chi non è del settore, proprio perché si tende a ragionare e a pensare per compartimenti, ciò che fa leva sul consumatore e sull’appetibilità del prodotto è sempre il prezzo finale. Non si pensa a tutto quello che, poi, succede quando acquisti una t-shirt a €5,99 o cosa metti addosso, anche per la persona e per sé stessi. Devo dire che questo è un grande scoglio che ci troviamo di fronte perché le persone, come dicevi tu, non hanno le informazioni e le competenze necessarie per capire e, a volte, non c’è neanche la curiosità. Si pensa “Beh ma tanto è sempre stato fatto così, possiamo continuare a fare così”. Non c’è la curiosità di capire e di approcciarsi a questo.
Vorrei spezzare una lancia a favore delle persone. In realtà, mi sono posto prima dall’altra parte. Secondo me le persone non hanno i soldi, partiamo da questo presupposto, è brutto da dire, ma è la verità. Rispetto agli anni ‘90 dove la ricchezza era finta, fittizia perché aveva un costo che non veniva computato a quello ambientale e sociale enorme, io, parlo per me, non ho la stessa capacità di spesa di mio padre alla mia età.
Il problema che mi son posto: ma cambieranno le cose o tendenzialmente stiamo andando incontro ad un mondo dove avremo una percentuale molto piccola della popolazione che detiene una quantità di ricchezza enorme e l’altra che, invece, dovrà veramente scegliere se questo mese mi compro una maglietta che costa €60 perchè fatta in un determinato modo e purtroppo dovrà sacrificare altre cose? La risposta che mi sono dato è che è difficile, oggi, considerando quello che sta succedendo, che si rivoluzioni questo. Finalmente i 5 uomini più ricchi del mondo decidono che abbiamo forse troppo e non ha senso. La finanza ha distrutto un po’ tutto, per cui torniamo ad una distribuzione equa della ricchezza. Quello che deve essere rivoluzionato, al di là del generare consapevolezza, è il metodo di acquisto. Completamente.
Una maglietta fatta in modo responsabile non può scendere di valore, anzi aumenterà il prezzo perché aumenterà il valore delle risorse naturali che vengono utilizzate. È questa la verità. Dall’altro lato, non aumenteranno tendenzialmente e proporzionalmente gli stipendi delle persone, per cui, dovremmo fare i conti con il fatto che quello che dev’essere rivoluzionante è il Retail. Com’è che il prodotto può diventare accessibile e inclusivo per il mercato? Questa è una grande sfida che lanciamo agli studenti perché noi non abbiamo ancora la risposta, ci sono un po’ di risposte sul mercato.
È una bella sfida. Noi la raccogliamo chissà sia oggetto di proposte future, anzi di lavoro e collaborazione future. Il nostro obiettivo è quello di proporre un nuovo stile di vita, anche con questo progetto, e soprattutto di far vedere attraverso realtà come la vostra che un’altra scelta è possibile. Si pensa che le cose siano bianche o nere, invece quando si acquisisce consapevolezza e anche cultura in questi ambiti c’è un’altra possibilità.
Anche acquistando fast fashion, se sei consapevole di quello che ha acquistato perché in quel momento non puoi permetterti dell’altro. È una realtà in cui nessuno si deve vergognare. Ci sono dei modi per far sì che quell’acquisto venga in qualche modo trattato nel migliore dei modi? Chiaramente l’impatto sociale e il danno è fatto. Purtroppo le persone che producono i nostri capi nel mondo del fast fashion non vengono adeguatamente pagate e questa è la dimensione, che più di ogni altra, dovrebbe farci riflettere e deve spingerci ad evitare certi tipi di prodotti.
Come succede a tutti, alzo la mano anch’io, ormai da tanti anni no, però mi è successo di acquistare dei capi senza neanche pensare. Il tutto ad un prezzo esageratamente basso, anzi era il prezzo basso che mi invogliava ad acquistare. Allunghiamo la vita di questi capi, cerchiamo di non buttarli via dopo 4 o 7 volte, trattiamoli con rispetto ed è una forma di rispetto nei confronti della persona ed è il minimo che possiamo fare. Andiamo a diluire il loro costo nel tempo.
Anche quando ci troviamo nella necessità di acquistare un capo ad un prezzo basso, che fa pensare ad una filiera poco trasparente ed un’azienda che non sia etica e sostenibile, il fatto di leggere l’etichetta è una cosa che, vedo, è sconosciuta. Noi che ci troviamo a lavorare con dei marchi di moda, quindi a farle queste etichette, è giusto informarci su questo strumento comunicativo che un po’ di verità può dircela. Non sempre perché non tutto deve essere dichiarato. Almeno la composizione del capo. Già capire se stiamo indossando un poliestere piuttosto di un cotone, anche per noi stessi e per aumentare questa durevolezza del capo. Penso che un prodotto che abbia un materiale è meno impattante per la persona e sia comunque migliore.
Le case di moda sono bravissime a mettermi la grafica nelle etichette. L’altro giorno ho preso l’etichetta in mano, è il mio lavoro per cui lo so. 30% PA, 60% RA, 30% EA. Cosa vuol dire? Già è una rottura di scatole, scusate, entrare in un negozio, andare a girare la maglia, cercare questa cosa.
Non so se a te capita. Ho fatto un test. Spezzando una lancia a favore delle commesse che è un ruolo e un un’occupazione difficilissima. In realtà, quasi nessuno, anche grandi Brand o Luxury Brand o fast fashion, sanno e hanno una formazione da parte dell’azienda, del datore di lavoro, dello Store e sono totalmente inconsapevoli di quello che ti stanno vendendo a livello di materiali. Questo è un grande gap, secondo me, perché la commessa per quanto riguarda lo Store fisico è il primo approccio che tu hai con la realtà. Devo dire che il consumatore anche in questo, non solo quando vede le sigle o quando vede queste etichette un po’ composte.
Il mondo del lusso in questo caso insegna. Se entri in un negozio di lusso l’attenzione al materiale, la cura, l’artigianalità, e non per dire che il mondo del lusso sia più sostenibile di altri, però la preparazione sul materiale è la base dell’esperienza Retail. Cashmere di un certo tipo, materiali nobili devono essere comunicati in modo giusto. Invece, nel mondo del fast fashion, non si vende il prodotto, si vende o l’accessibilità estrema, troppo a basso prezzo dei prodotti trendy, o la comunicazione. Io vendevo comunicazione nel nostro mondo retail e ti assicuro che in otto anni nessuno ci ha mai fatto formazione sul prodotto.
Non dovevamo vendere il prodotto, ma l’appartenenza ad un certo tipo di comunicazione o stile di vita che veniva spinto dall’azienda, con danni enormi. La prima volta, dopo 7 anni, in un ruolo in cui mi sono abbastanza vergognato per la risposta, un cliente ci ha chiesto di cosa è fatta questa questa maglietta, ci siamo guardati tutti e ci siamo detti ma che domanda è, non si può fare questa domanda.
In questo caso legittimi quello che diciamo sempre, una delle prime forme di sostenibilità arriva anche nella comunicazione e nei comunicatori, è importante saper dire di no a dei lavori o a dei ruoli che ci vengono dati quando ci rendiamo conto che l’azienda o il capo che dobbiamo pubblicizzare non è coerente con i nostri valori. E non solo. Ma anche a livello di partnership commerciali bisogna essere coerenti e porsi la domanda “ma vorremmo noi indossare un certo tipo di prodotto? Vorremmo noi rappresentare un certo stile di vita? Vogliamo diventare portavoci con le nostre scelte d’acquisto, scelte commerciali, scelte strategiche di un mondo che, sostanzialmente, è deturpante da ogni punto di vista?
Non c’è una dimensione del sistema moda standard, ad oggi, che è salvabile ed è questa purtroppo. Da come viene fatto il filo a come viene venduto nello showroom e arriva in negozio, come viene trattato e a fine vita. Non c’è un livello di sviluppo tessile e del prodotto tessile da salvare. È tutto in mano nostra da reinventare, e questa la bellissima sfida.
Raccontaci un po’ come nasce la collaborazione con Fashion Revolution. Tra l’altro mi parlavi di rivoluzione all’inizio.
Nasce 5 anni fa, come dicevo all’inizio, quando mi sono licenziato e con Viktor abbiamo fatto questo viaggio. Non sapevamo bene cosa volessimo fare, sapevamo che volevamo rivoluzionare il sistema. Naturalmente mi sono legato e ho cercato l’appoggio di organizzazioni che erano già attive sul campo da tempo. Fashion Revolution nasce nel 2013 a seguito del crollo di Rana Plaza, in Bangladesh, per volontà e determinazione di Carry Sommers e Orsola De Castro che, tra l’altro è di queste zone. Portano avanti un movimento e nasce questo movimento per chiedere maggiore trasparenza ai brand perché se devono morire 1138 persone, semplicemente per il fatto che nessuno si è mai chiesto come sono fatti i nostri vestiti e nessuno si è posto il problema che forse una maglietta a €2 ha un costo nascosto ben più alto, allora, è necessario intervenire e cercare proprio di sradicare, tirare fuori la verità.
La verità andava chiesta ai Brand. Fashion Revolution portava avanti questa campagna “Who made my clothes?” e la coordinatrice nazionale in Italia era Marina Spadafora. Ho semplicemente chiesto un meeting a Marina nel novembre del 2015. Le ho raccontato la mia storia quello che stavamo per fare, le ho proposto di fare un evento.
Avremo organizzato e fatto tutto noi, volevamo semplicemente il suo appoggio, il suo patrocinio. Un evento dedicato a generare consapevolezza che abbiamo portato al Parco Sempione, a Milano, a Vicenza e a Rimini che si chiamava Fashion Evolution Run. Ad ogni chilometro di questa corsa avevo messo una stazione dove i corridori potevano fermarsi e scoprire determinati dati sul rapporto tra moda e alcune dimensioni ambientali, sociali. È stato il seme del progetto che abbiamo portato per le scuole e da lì è nata una collaborazione che oggi è estremamente forte con Fashion Revolution. Sono entrati Fashion Revolution Italia e lavoro, ormai, da cinque anni a stretto contatto con Marina.
Una domanda sui capi che proponete in WRAD. Ci hai raccontato la filosofia, il livello di innovazione, di design, di educazione. Chiudiamo l’intervista raccontando il capo più simbolico piuttosto che un progetto che avete in atto, per far capire nel concreto cosa andremo a vedere anche in Armadio Etico, o meglio, cosa vedremo in WRAD.
Qui abbiamo portato diversi articoli, ma uno in particolare è quello che ci ha appassionato di più negli anni, perché ci abbiamo messo anni a svilupparlo, grazie al supporto di Perpetua che è un’azienda Vicentina che produce matite e grafite riciclata. Con loro è nato un progetto. Il nostro progetto di Ricerca e Sviluppo supportata da loro che si chiama “indoor perpetua” e abbiamo messo a punto questa giacca, che si chiama G-Jacket.
Parto da spiegare il prodotto poi spiego perché per me non è un prodotto, ma un servizio. Ad occhio nudo è una giacca in canvas, in tela, quindi simile al Denim grigia da indossare tutti i giorni per quella funzionalità. Però dietro a quel grigio si nascondono 3 anni di ricerca e sviluppo. È una tecnica tintoria minerale che recupera un sottoprodotto di produzione industriale che sono elettrodi in grafite. Usa grafite che viene riciclata per la tintura ed è un processo che abbiamo messo a punto con le dinamiche di economia circolare, ispirato ad un’antica tecnica tintoria Romana.
Duemila anni fa, i romani avevano trovato questa, tra le tante, polvere grigia che naturalmente si trovava nella regione della Calabria, che era adatta per tingere i tessuti anche a truccare le donne, facevano gli ombretti. È meglio fare un passo indietro per farne due avanti. Nell’antichità il rapporto sistemico con l’ambiente circostante era fondamentale per la sopravvivenza, poi l’industria ci ha cambiato. Abbiamo scoperto questa antica tecnica tintoria e l’abbiamo metabolizzata, provata, testata.
Grazie alla testimonianza di queste signore calabresi, questa è stata la grande scoperta. Tuttora erano custodi di questa ricetta per 2000 anni di generazione in generazione per via orale e le donne si sono trapassate l’usanza della tintura minerale con la grafite. Per me quella è la bellezza. Il capo si è trasformato: in una pagina di storia tessile italiana vivente capace di per prepararla; in un mezzo per recuperare uno scarto industriale che è la grafite riciclata. Ad oggi con Perpetua sono arrivati quasi a 24 tonnellate di polvere di grafite recuperata; e in quella che per me è il nostro case study di design responsabile oltre a ridurre tutti gli indicatori di consumo ambientale in termini di impatto, sulle sostanze chimiche utilizzate che vengono quasi eliminate. Da quel punto di vista c’è un grosso studio.
Ma il prodotto diventa un servizio. Un servizio con un triplice impatto positivo. L’abbiamo presentato, ormai due anni fa, in Germania e poi da allora l’abbiamo sempre migliorato e perfezionato. È arrivato in finale al Compasso d’Oro, ed è esposto attualmente a Milano alla mostra del ADI Design Index, fino ad arrivare anche qui. Non siamo un brand di moda sostenibile, siamo uno studio di design. Lavoriamo nel tessile, nel design di prodotto e servizio. Ci siamo slegati dalla moda e cerchiamo di infiltrarla.
Slegati dalla moda o dal sistema moda?
Slegati dalla moda e dal sistema. Moda intesa come fashion design.
Io intendo come disciplina artistica.
Devo dire che siamo più vicini allo sviluppo di un mobile che allo sviluppo di un capo. C’è ingegneria dietro.
Ultima domanda: c’è qualche consiglio per i nostri ragazzi o meglio per i comunicatori di domani? Oltre al saper dire di no, che altri consigli possiamo dare?
Il primo in assoluto è ricordarsi quello che abbiamo detto prima. Nessuno ha bisogno di un altro prodotto se si parla di moda. Partire con questa consapevolezza e l’umiltà nel dire nessuno ha bisogno di questa maglietta, nessuno ha bisogno di questo paio di jeans. Capire come il prodotto può andare a risolvere un’emergenza ambientale e sociale che trascende il prodotto stesso.
Partire da quello step piuttosto che il prodotto, ci consente, poi, di renderci conto di avere una posizione del prodotto e dire che non serve a nulla e quindi se si lavora in un’azienda deve avere il coraggio di dire stiamo facendo una cavolata, se si lavora per noi stessi avere la consapevolezza di dire questo prodotto va cancellato ed è quello che è successo anche a noi diverse volte. Oppure se si trova la risposta ambientale e sociale allo sviluppo di quel prodotto capire qual’è la strada migliore per impostare una narrativa di comunicazione che sia al tempo stesso educativa, coinvolgente ma funzionale a dare alle persone un messaggio che trascenda prodotto stesso; che dia una guida e che offra un sistema, una luce, una via da perseguire nella vita di tutti i giorni perché è quello di cui abbiamo realmente bisogno.
Grazie mille per la tua disponibilità. Ciao a tutti e alla prossima puntata di ModaPuntoCom.